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Tamerisco II parte seconda

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II                                              



Era Luglio inoltrato, l’igrometro segnava umidità al cento per cento. I pochi abitanti rimasti in città erano pesci in un oceano tropicale: variopinti, pacifici, avidi consumatori di plancton; alcuni, pochi per fortuna, erano grigi, feroci carnivori sempre alla ricerca di prede. Le sirene urlavano giorno e notte portando feriti dall’autostrada e cuori infartuati dalla calura estiva. In viale Mameli, dentro un cassonetto dell’immondizia era stato trovato un feto di sei mesi; nel quartiere di S. Giacomo, il quartiere residenziale appena sorto sulle prime colline, in riva al fiume che d’estate scorre maleodorante o meglio non scorre affatto, due anziane signore avevano trovato un barbone morto, orrendamente mutilato alle mani e ai piedi, come se avesse subito una crocifissione.

La biblioteca era frequentata da pochissimi lettori e presto sarebbe stata chiusa al pubblico per quasi un mese. Saremmo rimasti solo noi, impiegati appena assunti, a catalogare volumi su volumi, e il dottor Albertini, il direttore, che non andava mai in ferie. Raramente egli veniva fuori dalla sua tana di serpente marino lucido e grasso, con il sigaro in bocca, a domandare questo o quel testo: per lo più manoscritti del quattrocento rinchiusi in un armadio di noce massiccia al riparo dalla luce del giorno. Albertini era uno studioso di filosofia del Rinascimento. I suoi articoli erano comparsi su riviste prestigiose e a suo tempo avevano fatto scalpore per l’audacia e l’originalità delle idee. Avrei voluto conoscerlo meglio, m’incuriosiva la sua mole imponente, contornata sempre dal profumo del sigaro: pareva un giocatore d’azzardo, piuttosto che uno studioso. Ed era forse quel gusto per il rischio, trasfuso nei suoi scritti, che lo aveva reso così famoso.

Albertini se ne stava sempre rinchiuso nel suo studio per affacciarsi solamente quando sentiva passare una grossa preda succulenta, cioè uno di quei manoscritti rari e preziosi che noi  maneggiavamo con mille precauzioni, mentre lui brandiva come mazze da baseball, senza mai sgualcire una pagina. In quei giorni di scarsa affluenza di lettori emergeva più spesso dal suo speco domandando ad alta voce “Dove sono i miei cretini?” e sedutosi sopra una Savonarola col sigaro serrato tra le labbra, si guardava attorno tentando brandelli di conversazione con chi gli passava a portata di mano.

E se era di malumore mi diceva: “ Senta Cretini, ha mai pensato di cambiare cognome?” 

“E tu hai mai pensato di cambiare quella faccia da scemo?” pensavo, quando la mia luna nera si scontrava con la sua. 

Il cognome della mia famiglia in origine era Cerini; quando iniziarono le persecuzioni degli ebrei mio nonno fece cambiare il cognome, falsificando i documenti, e si rifugiò con tutta la famiglia in Svizzera. Forse fu un rigurgito antisemita del falsario a cambiare il cognome da Cerini in Cretini. Tuttavia, finita la guerra, mio nonno decise che quello sarebbe stato per sempre il nome della nostra famiglia. 

Se invece Albertini era di buon umore si soffermava in elucubrazioni sul pensiero di Pico della Mirandola, di cui era uno dei massimi esperti, e quando parlava del Ficino, della magia, la sua voce calda e pastosa assumeva risonanze cavernose, i suoi occhi risplendevano di una luce la cui sorgente pareva collocata in regioni remote del tessuto cotonoso del suo cervello. E da certe allusioni si capiva che non gli era estraneo l’uso delle formule magiche. 

Fu uno di quei mattini che il direttore mi fece una proposta sorprendente.   Era mezzogiorno quando s’affacciò alla porta del suo studio contornato dal consueto zaffo di sigaro. 

“C’è il dottor Cretini?” chiedeva guardandosi attorno. Io ero al mio tavolo intento a riordinare le riviste letterarie appena arrivate. All’udire la sua voce, un campanello d’allarme mi suonò nell’orecchio: di solito mi chiamava per cognome quando voleva fare dell’ironia, l’aggiunta del titolo burocratico conferiva alcunché di nuovo e di grave al motivo di quell’uscita. 

“Eccomi!” risposi sporgendomi a fianco della pila di libri. 

“Vuole accomodarsi nel mio studio?” 

Mi sedetti su una poltroncina stile rococò sorseggiando di malavoglia un liquore fatto in casa, riesumato da uno scaffale, che non avevo avuto il coraggio di rifiutare. Egli stette per un po’ a gingillarsi in piedi con un volume rilegato in cuoio. 

“L’ho chiamata perché avrei da farle una proposta: lei mi sembra un giovane intelligente e di buona volontà. Leggo nel suo curriculum che ha riportato degli ottimi voti al corso di laurea…

Ebbene, per arrivare al dunque, un mio carissimo amico, il professore Luciano Pontificato, docente di Storia Medievale, mi ha scritto domandandomi di indicargli un giovane dalle caratteristiche che mi sembra ravvisare in lei, per un posto da ricercatore nel suo istituto” Fece una pausa osservandomi a lungo con quegli occhi neri e fastidiosamente penetranti per studiare la reazione che avrei avuto alle sue parole. 

Tormentai il bicchierino tra le dita: un bicchierino di cristallo sfaccettato, di modernariato, probabilmente superstite di un servizio prestigioso.

“Caro ragazzo, è un’occasione unica, importante. Può essere l’inizio di una brillante carriera, di una vita di studio, di approfondimento spirituale.

Vedi, al tempo d'oggi, tutto sembra galleggiare in superficie. Soltanto chi ha la possibilità di approfondire, di scavare può dire di essere, di esistere veramente. Gli altri sono fantasmi, aria, fumo, Perelà!

Noi siamo fatti d’altra materia: materia cerebrale, materia pensante. E’ nostro dovere ricercare nuove strade, aprire il futuro agli esseri vegetativi che ci stanno attorno, a volte pure a scapito della salute, della libertà, della vita stessa. Pensi a Campanella, a Giordano Bruno, al Galilei. Quelli tuttavia erano altri tempi, erano altri uomini!” A questo punto si fermò perso nei pensieri, come spesso gli accadeva quando, come in una specie di macchina del tempo, approdava in quello a lui più familiare del passato.

Da parte mia non sapevo come comportarmi: avrei dovuto forse fingere di essere felice, mostrare sorpresa e gratitudine per quell’occasione inattesa, per la stima che mi manifestava e che di certo non mi sarei mai aspettato, oppure avrei dovuto dimostrare una diffidente cauta sospensione degli eventi. Atteggiamento quest'ultimo che ebbe a vincere, pensando ai nuovi amici che mi ero fatto in quella città: Guido, Michele, Luigi; e a come avrei potuto vivere lontano da Adelina, intraprendere una via completamente nuova, con tutti i rischi che tale scelta avrebbe comportato, rinunciando al lavoro in biblioteca, che non mi dispiaceva. Soprattutto non credevo di essere quell’intellettuale votato alla castità e al martirio come lui mi dipingeva. 

Quando ritornò nel mondo dei viventi diede una profonda aspirata al sigaro

“Purtroppo siamo chiamati a fare le scelte più importanti quando siamo giovani e immaturi. Per questo la vita è più il risultato della fortuna che della virtù! E per giunta siamo riluttanti a dare ascolto a quelli che la vita l’hanno già vissuta e quegli errori li hanno commessi”. 

Mi sembrava di avere già vissuto quella scena. Rimasi pensieroso sulla poltrona per un tempo interminabile, con grande meraviglia, forse dispetto, del direttore che si aspettava un mio entusiasta, pronto consenso. Chiesi se potevo pensare un attimo, prima di dare una risposta. Mi disse che non c’era fretta, che la cosa si sarebbe realizzata in autunno, che avevo tutto il tempo per rifletterci.

Quando ritornai al tavolo delle riviste, mi domandavo dove e quando avevo già vissuto qualcosa di simile. Adelina si avvicinò furtiva, come sempre faceva quando non voleva che gli altri colleghi sapessero: “Com’è andata, cosa vuole?”

“Mi ha domandato se voglio fare il ricercatore all’Università” 

“Che onore! E tu?” 

“ Gli ho detto che ci penserò” Risposi asciutto. Adelina scosse la testa perplessa; con quella camicetta bianca, la gonna blu e il largo fiocco pure blu attorno al collo sembrava una collegiale. Il suo aspetto mi riportò all’infanzia, ai banchi della scuola elementare: avevo dieci anni, ero nel tinello a casa dei miei, una casa di campagna che agli occhi del bambino era grandissima, circondata dal giardino con tanti fiori d’ogni specie. Mia madre li curava amorevolmente, al punto che ne ero geloso. Dietro c’era l’orto con le melanzane, i cavoli, i pomodori e non so quali altri ortaggi la cui cura era di competenza di mio padre, e un grande albero di cachi, proprio di fronte alla finestra della mia camera, che in autunno faceva dei magnifici frutti e venivano passeri e merli a beccare i suoi pomi gialli e succosi. Era il mio passatempo preferito cacciarli con la fionda e poi con la carabina che mi regalarono per il decimo compleanno. Avevamo appena pranzato e lo zio sorseggiava il caffè corretto in compagnia di mio padre. Parlavano del mio futuro,  lo zio diceva le stesse cose che aveva detto Albertini: che le scelte si fanno quando si è troppo piccoli,  che ero un bambino e che i miei genitori dovevano essere più autoritari e una decisione così importante per il mio futuro la dovevano prendere loro. Non era giusto lasciare a me lla responsabilità di una scelta di cui potevo pentirmi quando sarei diventato grande. La decisione di vitale importanza era di mandarmi in collegio in città una volta finite le elementari. Io avevo opposto un rifiuto deciso, affermando che sarei scappato alla prima occasione e che non mi avrebbero più rivisto.

Mio padre era un uomo di spirito libertario e democratico e avrebbe fatto un torto a sé stesso piuttosto di costringere chiunque, anche un bambino, a fare alcunché contro la propria volontà. Mia madre prese sul serio le mie minacce, e poi voleva la mia felicità: non poteva pensarmi lontano e triste, in collegio. Così, nonostante le insistenze dello zio, feci le scuole statali a due passi da casa.




 

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